venerdì 26 marzo 2010

AI TEMPI DI LELE E PASQUALE


E' talmente ben scritto questo ricordo di Till Neuberg, postato oggi sulla lista dell'ADCI, che lo riporto integralmente.

'Come già hanno fatto altri amici e colleghi, anch'io voglio evitare di dire
cose note (la carriera, le campagne, i premi, le sue agenzie - che erano già
mito quando la maggior parte dei colleghi stavano ancora cercando la propria
strada). Pertanto provo a condividere alcuni momenti grazie ai quali la mia
vita professionale - ma non solo quella - è stata spiazzata e valorizzata da
Emanuele. A volte col botto, ma nella maggior parte dei casi, con garbo e
discrezione.

La prima volta che avevo sentito parlare di lui, era quando la réclame
italiana stava compiendo i primissimi passi per uscire dal populismo naïve
(e io stavo vivendo la mia mutazione mentale e professionale dalla grafica
verso la pubblicità). La prima agenzia che ci aveva provato, era un posto
chiamato Itamco che la Young & Rubicam americana aveva appena rilevato. I
nuovi proprietari avevano deciso che il talento individuale/casuale di
qualche dirigente locale, non bastava più. Imposero che a menare le danze
che oggi chiamiamo "creative", fosse un personaggio forte, colto,
possibilmente straniero. La scelta cadde su Geoffrey Tucker, uno stratega di
lavoro inglese particolarmente bravo nell'individuare, spingere e spronare i
giovani talenti. Era molto navigato nella politica del suo paese. Grazie a
lui, nel 1970 Edward Heath sarebbe poi stato eletto primo ministro della
Gran Bretagna.

A Milano, alla Y&R in piazza Duse 2, Tucker guidò una sorta di dream team
creativo: come art, c'era un giovanissimo wunderkind tedesco di nome Michael
Göttsche e due copy, Emanuele Pirella e Matteo Lamacchia. Facevano campagne
che per gli standard italiani allora erano autentiche rinascite di stile e
di buon gusto. Le prime marche per le quali applicavano quel loro savoir
faire, erano prodotti di largo consumo: Plasmon, Gancia, Dreher, Knorr. Per
gli spot potevano contare su una vera tv producer. Olga Aulenti, sorella
dell'architetta, non era la solita "capoufficio cinema" (come si chiamavano
allora), ma una persona moderna e colta che disprezzava cordialmente
Carosello. Era una squadra di amici, compatta, a volte persino affettuosa -
non solo lavorativa.

Come si dice in questi casi: "Il resto è storia".

Una storia che riguarda una parte rilevante dei creativi italiani. In
rigoroso ordine alfabetico, cito i nomi di quelli che in modo sempre
incisivo e indelebile avevano legato gran parte della loro vita alla persona
e alla personalità di Emanuele (mi perdonino tutti quelli che in questo
momento non mi tornano in mente, saranno almeno il doppio!):

Dario Alesani, Sandro Baldoni, Andrea Bayer, Isabella Bernardi, Francesco
Bozza, Massimo Carraro, Aldo Cernuto, Enrico Chiarugi, Stefano Colombo,
Marco Cremona, Bruno Ferlazzo, Roberto Gariboldi, Michael Göttsche, Emilio
Haimann, Matteo Lamacchia, Giancarlo Livraghi, Mauro Manieri, Marco
Massarotto, Umberto Mauri, Livio Mazzotti, Lele Panzeri, Roberto Parisi,
Pino Pilla, Roberto Pizzigoni, Enrico Maria Radaelli, Daniele Ravenna,
Paolo Rossetti, Roberta Sollazzi, Enzo Sterpi, Aldo Tanchis, Annamaria
Testa, Agostino Toscana, Pietro Vaccari, Giampiero Vinti, Köbi Wiesendanger,
Nicola Zanardi.

Pirella ha sempre sottolineato con orgoglio che, nella pubblicità, il suo
primo e grande maestro è stato Tucker. Nella letteratura erano Gadda,
Vittorini, Calvino e, ovviamente, Flaiano.

Nello stile e nei rapporti s'ispirava palesemente a Bernbach.

Da questo punto di vista, il suo unico e grande antagonista è stato Pasquale
Barbella. Un giorno, il loro lungo testa a testa di qualità, di ambizioni,
di stile, era sfociato in un'autentica dichiarazione di stima (quasi
d'amore) di Pasquale quando pubblicò un annuncio con la head: "Perché
Pirella è meglio di Barbella"... e giù una bodycopy che ci aveva deliziati
tutti quanti. Come "brand" Pirella, Pasquale parafrasò visivamente
nientemeno che il mitico logo Pirelli (con la P allungata).

Se nel ciclismo in Italia c'erano Bartali e Coppi, nel cinema la Lollo e la
Loren, nel calcio Rivera e Mazzola, noi della pubblicità "avevamo" Lele e
Pasquale.

Dire "avevamo", è una metafora un po' paradossale - perché in realtà quei
due avevano noi. La fila di creativi che furono intervistati da "quei due",
era sempre lunga così. Poter dire "lavoro con Pirella" (o Barbella) era come
esibire una Gold Card. Ma tutti e due avevano un vezzo: i "nuovi" creativi
preferivano inventarseli loro. Gli piaceva intervistare giovani vogliosi,
parlare con studenti disorientati, fargli domande cattive. Scoprire talenti
inattesi, era cento volte più appagante che assumere delle star. Se volevano
fare il copy, guai a presentarsi senza avere già scritto cose rilevanti (non
necessariamente di pubblicità). Il disprezzo per le giovani leve che non
leggevano e non scrivevano tanto, sempre, ovunque e comunque, poteva anche
raggelare di colpo il colloquio.

Se l'anomalia tutta italiana di investire oltre la metà dei budget nella tv,
è stata in qualche modo mitigata, lo dobbiamo anche a Pirella. Senza la sua
passione per l'inventiva concettuale, visiva e verbale, molti periodici
sarebbero spariti già una quindicina d'anni fa. Quando persino il negozietto
sotto casa, sognava solo di apparire in tv, resistere, resistere, resistere
per fare buone campagne stampa, era un suo modo disperato, eroico, cocciuto,
per non soccombere allo strapotere di Mediaset. La circostanza è racchiusa
in un episodio che Pirella (in un'intervista raccolta da Rossella Pizzera
per il "Latore della presente" - testata di una newsletter ADCI inventata da
lui, come peraltro, il nome e il logo del periodo trade "Nuovo"), ha
raccontato così: «Publitalia offriva ai clienti le campagne TV già girate,
quindi cominciava a essere una specie di competitor per le agenzie. Così fu
organizzata all¹Hotel Gallia una cena riservata ai soci, a cui partecipò
anche Berlusconi. (...) Quella sera Berlusconi ci venne a raccontare che non
era vero, che non avevano mai fatto campagne, ma che se le avevano fatte non
le avrebbero fatte mai più. Certo che Berlusconi che veniva a scusarsi, che
chiedeva l¹iscrizione al Club, e per questo era disposto a pagare 500 mila
lire, era una cosa curiosa».

Un altro episodio me l'aveva raccontato proprio lui. Erano gli anni del
rampantismo, agli inizi degli anni '80. Emanuele era già un mito, insieme a
Barbella, Mignani, Sanna e Annamaria Testa era uno dei pochi pubblicitari a
essere ripetutamente citato e intervistato dalla cosiddetta stampa periodica
d'opinione. Per una breve vacanza fuori stagione, Emanuele si trovava in una
paese africano (forse era Agadir, non ricordo), in un bell'albergo. Leggendo
tranquillamente la sua abituale Repubblica accanto la piscina, gli si
avvicinò un omone cicciotello, con aria tra il sorridente e il minaccioso:
«Anche qui?» Era Craxi.

In un breve colloquio il politico provò a incantarlo, a portarlo "dalla sua
parte". All'epoca il leader socialista non era ancora pubblicamente
compromesso per le sue ruberie, gran parte dei progressisti del paese lo
consideravano ancora un innovatore. Pirella mi fece capire che dal punto di
vista professionale rifiutare la complicità di Craxi non era facile, ma che
in sostanza quell'uomo gli faceva paura. Il suo sorriso non era solare, ma
un po' troppo vicino a un ghigno.

Solo pochi anni dopo (nel 1985), io stesso fui indirettamente coinvolto come
produttore e regista in quella vicenda: per lo storico cliente Repubblica,
Aldo Cernuto e Roberto Pizzigoni avevano pensato una campagna a sua volta
"storica": nei due soggetti stampa che ricordo, si vedevano il Papa e Craxi
con aria annoiata e sonnolenta. Headline: «Repubblica sveglia l'Italia».
Nello spot c'era un boiardo politico (anonimo) appisolato che dopo alcuni
discreti hm hm hm, veniva svegliato brutalmente dal suo maggiordomo (o messo
istituzionale) con un fragoroso sbattimento di Repubblica sulla sua
scrivania. In occasione del breve PPM, Emanuele si affacciò per una sola
battuta: «Vedrai, ci divertiremo!»

Infatti, ci siamo divertiti un sacco.

Parecchi anni prima, Emanuele mi telefonò personalmente per chiedermi: «Hai
presente Krusciov che alle Nazione Unite, per protestare, si toglie la
scarpa e la sbatte ripetutamente sul leggìo?» Era una scena mitica che tutti
quanti avevamo visto e rivisto un sacco di volte alla tv. Durante un
incontro con Luciano Benetton che aveva appena acquisito il "Calzaturificio
di Varese", Emanuele aveva inventato, al momento, uno spot dissacrante con
la citazione video di quella scena. Al cliente piacque subito e,
naturalmente, anche a me. Il guaio era che quella famosa scena era sparita
da tutti gli archivi possibili di tutto il mondo. I servizi segreti di
Breznev avevano fatto un ottimo lavoro. Scambiammo centinaia di telefonate e
telegrammi con decine di archivi, libraries, cinegiornali, con le stesse
Nazioni Unite, persino con ambasciate e alcuni centri di documentazione
militari. Ci ricordammo che la scena era anche inserita in un mitico
documentario dal titolo "Atomic Cafè". Era sparita anche da lì. Quando ne
parlai a Emanuele, la sua risposta fu laconica: «Se ho interpellato un
produttore svizzero - e non italiano - l'ho fatto perché mi serviva un
coltellino multiuso». Negli anni '70 non c'erano ancora gli effetti
digitali. L'unica possibilità era ricostruire e rigirare quella scena. Il
miglior sosia di Krusciov lo trovai a Londra. Di mestiere faceva il
lottatore. Assomigliava moltissimo al suo collega (russo, pelato, cattivo,
come lui) che Kubrick aveva usato nella famosa scena della rissa nel suo
"Rapina a mano armata" con Sterling Hayden.

Il lottatore finto ucraino faceva benissimo la sua parte. Tutto funzionò.
Dopo la presentazione a Benetton, Pirella mi telefonò per prendermi in giro:
«Tutto bene. Meglio dell'originale».

Un'altra volta gli produssi un "codino" di soli 10 secondi per la RAS. Lo
script prevedeva un turista imbranato che in mezzo al deserto era riuscito a
scontrarsi con l'unica palma che si vedeva nel giro di chilometri. Girammo
alle Canarie. Per spostare e posizionare una palma in mezzo alla sabbia, ci
voleva l'elicottero e un permesso speciale. Per non portarlo apposta
dall'Italia, l'unico Maggiolino in zona lo trovammo su un'isola vicina, via
nave. Quella follia di pochi secondi costava come produrre un grande spot.
L'unico "risparmio" fu la presenza dell'elicottero che con i suoi rotori
serviva anche per togliere le nostre impronte dalla sabbia.

Alla presentazione (con account, producer, creativi) Emanuele arrivò in
ritardo. Il cliente non voleva aspettare e insistette per vedere subito lo
spot, anche senza di lui. Fu un disastro. «Per girare questa stupidata ci
avete fatto spendere tutti quei soldi? Ma non potevate andare in Sardegna, o
proporci un altro spot? Io questa roba non ve la pago!» A questo punto,
calmo e sorridente, entrò Emanuele. Nonostante non avesse mai visto primo lo
spot, disse serafico al cliente: «Solo dieci secondi, ma forse valgono più
di trenta... vediamo!». Alla fine approvò. Lui - non il cliente. E aggiunse:
«Ha visto, carino, convincente, perfetto!» Il cliente lo ringraziò,
complimentandosi per l'ottimo lavoro.

Oggi, per situazioni del genere scomodiamo paroloni come guru, adrenalina,
carisma. In realtà le cose sono molto più semplici: la cultura (quella vera,
non quella del gossip e dei quiz), quando si combina con il common sense e
con un'adeguata porzione di cattiveria, non si fa mai mettere sotto dalla
mediocrità, dai burosauri.

Un'altra volta un suo cliente faceva il furbo e per mesi e mesi non aveva
pagato la mia casa di produzione. Ero fuori per un bel po' di soldi. Siccome
si era trattato di un giro piuttosto complesso tra l'agenzia,
un'associazione che lavorava nel sociale e Mediaset, alla fine mi rivolsi a
lui. Mi ascoltò pazientemente e chiamò il suo responsabile amministrativo
(che non era un contabile qualsiasi, ma il suo consulente finanziario,
lucido e competente). E Lele gli disse: «Vediamo come possiamo risolvere
questa faccenda». Dopo tre giorni ebbi i soldi. Me li aveva anticipati lui.

L'ultimo volta l'ho visto di persona, alle otto di sera, a parlare con
l'altro Lele nella sua "Scuola". Discutevano del peggior cliente che in
assoluto può capitare a un creativo (un leader di mercato, presuntuoso,
notoriamente ignorante, ma che aveva quasi sempre avuto la sfacciata fortuna
d'imbattersi in agenzie di qualità). Beh, intravedendo, per un breve, fugace
saluto, il grande Pirella a perdere tempo per un clientaccio di quel tipo,
m'era venuto il magone. Ma come, mi ero detto, perché uno come lui non se la
spassa a divertirsi solo con clienti di qualità? O a scrivere libri? O a
tenere conferenze strapagate?

E invece no.

Emanuele era un lottatore. Gli piacevano le sfide. Anche quelle dure. Amava
esprimersi con (a volte, micidiale) ironia, a voce bassa, spesso in modo
laconico. Sapeva anche ascoltare - rarissima qualità. Era (facile a dirsi
oggi) un gentleman duro.

E' un paradosso, ne sono sicuro, che avrebbe apprezzato. Till

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